1 settembre 2012

Partire o non partire?




In una valle del Ladakh vivono oltre cento famiglie di pastori nomadi. O, meglio: vivevano. Perché stanno andando via. Attratti dal miraggio della vita di città e respinti dalle difficoltà della montagna, poco a poco, una famiglia dopo l’altra, scendono a valle. Si trasferiscono nella capitale, Leh, dove perlopiù diventano muratori o manovali.

Fanno questa scelta per stare più vicini ai figli, che hanno già rifiutato la vita nomade per inseguire l’illusione della comodità, del progresso, di uno status che gli conferisca maggior riconoscimento sociale. Ma il volersi ricongiungere ai figli getta questi pastori nomadi in una contraddizione: se prima li avevano lontani ma potevano aiutarli anche economicamente, ora che li hanno vicini finiscono per dipendere da loro.
Per abbandonare la vita da nomadi, infatti, i pastori sono costretti a vendere tutto il loro bestiame. In blocco, sottostando alle condizioni dei mercanti e della stagione. In questo modo si tagliano qualsivoglia possibilità di fare marcia indietro.
L’esodo verso la città promette quindi un futuro di alienazione, oltre che di perdita d’identità.

Questa storia è raccontata ne La nuit nomade, lungometraggio di Marianne Chaud, giovane documentarista che ha trascorso molti mesi tra le montagne nel nord dell’India. Ha studiato vita, tradizioni, contraddizioni dei popoli che abitano quelle terre, e ha imparato la lingua dei nomadi. Proprio questa facilità linguistica le ha consentito di raggiungere un alto grado di intimità coi pastori, e di filmare scene di vita quotidiana apparentemente normali ma dense di ansie e aspettative. Partire o non partire? Nel suo film, la Chaud raccoglie frasi sagge, battute ironiche, confessioni. E osa, persino: si concede il lusso di entrare in scena, facendo per qualche istante oscillare dei fiori gialli davanti alla camera.

Con uno dei pastori nasce un rapporto molto confidenziale. A un certo punto lui le dice: “E’ una fortuna che tu parli la nostra lingua, altrimenti saremmo come due montagne che si incontrano, o come due sassi”.

Partire o non partire, quindi? Se fossimo degli irrecuperabili sentimentali, citeremmo ora quell’adagio secondo il quale partire è un po’ morire. Invece lasciamo parlare uno dei protagonisti del film, un pastore che si incammina nella landa desolata, però amata, della sua terra. “C’est terrible de choisir”, confessa alla telecamera. È terribile dover scegliere.

Bellissima la fotografia, che rende i paesaggi in modo vivido ma senza lasciare che schiaccino i personaggi. Il resto lo fa una colonna sonora incalzante e leggera.

Coprodotto da Zed e da Arte il film è uscito nelle sale il 4 aprile scorso. Tra i ventuno film in concorso all’edizione 2012 del Film festival della Lessinia, ha ottenuto il Premio del Curatorium Cimbricum Veronense.

A proposito, come va a finire per i pastori che scelgono di trasferirsi in città? Il film della Chaud lo lascia soltanto intuire. Ma al festival della Lessinia è passata un'altra pellicola, ambientata proprio a Leh, capitale del Ladakh. Non c’entra niente con la vita dei pastori nomadi che hanno deciso di trasferirsi, ma in qualche modo racconta qualcosa che li riguarda. Il film si intitola Out of thin air, e parla della sgangherata industria cinematografica di questa città. Ispirati al modello di Bollywood, intraprendenti quanto improvvisati cineasti locali sfornano film a basso budget che riscuotono un successo strepitoso. Gli attori - ma anche gli operatori, i fotografi, gli sceneggiatori e così via - vengono reclutati tra manovali, tassisti, casalinghe, contadini e persino monaci. Sicuramente tra loro c’è anche qualche (ex) pastore nomade.

Natalino Russo, Roma.


La nuit nomade
Marianne Chaud
90’, Francia, 2011
Sito ufficiale: www.lanuitnomade.com

Out of thin air
Shabani Hassanwalia, Samreen Farooqui
49’, India, 2009


24 agosto 2012

Un festival per la ruralità




Bosco Chiesanuova è un piccolo paese della Lessinia, a una mezzora di macchina da Verona. A millecento metri di quota, è il posto giusto dove cercare refrigerio in giorni di caldo torrido. Non che qui faccia proprio fresco, ma almeno si respira aria di montagna. Si scorge da lontano il Corno d’Aquilio (1545 m), limite settentrionale della Valpolicella e contenitore di grandi grotte carsiche come la ben nota Spluga della Preta.

Ma quella che si respira a Bosco in questi giorni non è propriamente aria di cime, e nemmeno di caverne. Qui ogni anno, a fine agosto, approda una montagna speciale, un territorio fatto di ruralità e di vita all’aperto, di uomini e donne che abitano terre lontane, e di registi che raccontano queste storie.

Dal 1995, in questi paraggi si svolge il Film Festival della Lessinia, dedicato appunto alla montagna nell’accezione più ampia del termine.
Vita, storia e tradizioni in montagna, recita il sottotitolo. Del resto i film in concorso quest’anno parlano chiaro: accanto alle storie di montagna - quelle in cui le inquadrature sono occupate da neve, ghiaccio, pareti, profili affilati, fiumi impetuosi - sullo schermo scorrono vite vissute in territori lontani dagli uomini e dalle donne che li abitano.

È la ruralità, più che la montagna, il vero tema di questo festival.

Ne parlo con Alessandro Anderloni, direttore artistico della manifestazione. Lo incontro a un tavolino in Piazza del Festival, davanti al Teatro Vittoria. Intorno a noi c’è un brulicare di persone: registi, sceneggiatori, operatori e pubblico; alcuni sono arrivati qui da lontano, per partecipare a una settimana di proiezioni, dibattiti e seminari.

“Credo che il festival vada trovando gradualmente una sua identità”, dice Alessandro mentre sorseggiamo un mojito. “La parola ‘montagna’ comincia a starci stretta: non rende giustizia all’impostazione di questo festival, che di anno in anno va connotandosi in modo più chiaro”.

Qui infatti approdano storie che narrano di uomini e donne, dei territori rurali che abitano, delle difficoltà e delle contraddizioni di vivere oggi in quei contesti. La televisione, il cinema, le strade, le merci e il mercato si espandono inesorabilmente, penetrano in territori isolati solo fino a qualche anno fa. Li stanno cambiando, li cambieranno per sempre. Il compito del festival di Bosco Chiesanuova forse è proprio questo: dare spazio a chi vuole e sa raccontare questo cambiamento in atto. Il che non ha niente (o poco) a che vedere con la conquista di una cima, con la montagna vissuta come avventura. Per quello esistono già altri festival. Qui si fa un narrare che non punta alla meta ma racconta il viaggio mentre esso si svolge.

“E’ proprio così”, commenta Anderloni. “All’inizio eravamo in conflitto con l’altro festival, quello di Trento, anch’esso dedicato alla montagna. Ma pian piano noi stiamo trovando un’identità diversa, un approccio che ci piace nettamente di più. Credo che il futuro di questo festival sia proprio questo. Forse è giunto il momento che il nome stesso, Festival della Lessinia, diventi autosufficiente, non abbia più bisogno di un sottotitolo esplicativo. Chi viene qui, ormai sa bene che non proponiamo film di montagna nel senso tradizionale. E gli va bene così. Durante queste sere abbiamo proiettato lungometraggi che raccontano storie di pastori, di città, di valli. Sullo sfondo c’è sempre la vita rurale con le sue difficoltà e le sue contraddizioni, e questo al pubblico piace. Registriamo ogni sera il tutto esaurito, e per chi organizza un festival questa è la più grande soddisfazione”.

Questo è un anno strano. L’estate scalda e paralizza la pianura, ma non riesce a intaccare chi, come noi, trascorre questi giorni a mille metri di quota. Certo fa caldo anche qui, ma il bar del festival è un’isola felice. Qui si chiacchiera, si sfogliano libri, ci si scambia foto, racconti, sogni che potrebbero diventare progetti.

Il mojito è quasi finito. Lascio Alessandro ai suoi impegni pomeridiani.


Mentre scrivo queste righe ripenso a uno dei film visti l’altra sera. “Out of Thin Air”, di Samreen Farooqui e Shabani Hassanwalia. Due giovani registe indiane raccontano il Ladakh come nessuno l’ha mai fatto. Nessuna cartolina turistica, nessun linguaggio compiacente o compiaciuto, ma uno sguardo fresco e apparentemente amatoriale per un film che parla di film.
Nella città di Leh è nata un’industria cinematografica che, con risorse quasi nulle, imita le grandi produzioni di Bollywood. Per farlo coinvolge gli abitanti stessi della città, persone che nel quotidiano conducono vite normali: tassiti, falegnami, autisti, insegnati, casalinghe, persino monaci. Con un approccio apparentemente amatoriale, girato cioè con tecniche proprie delle produzioni che intende raccontare, il film offre uno squarcio inedito di un paese bellissimo come il Ladakh, delle sue montagne, delle sue valli e dei fiumi impetuosi che le percorrono.

Si esce dalla sala col sorriso sulle labbra, e con la voglia di vedere altri film che sanno parlare dei luoghi in modo nuovo e fresco.


Natalino Russo, Bosco Chiesanuova (VR, Italy)

7 maggio 2012

Pericolo facinorosi

Roma, 5 maggio 2012. Manifestazione in difesa dell'acqua pubblica


Una folla allegra, musicale e colorata attraversa piazza Venezia. Gli striscioni si confondono coi fiori e con le magliette vivaci e scherzose dei manifestanti. Ci sono tamburi, chitarre, e bici e tricicli e giocolieri. Il cielo è blu intenso, l’aria primaverile. Si sta bene a mezze maniche. Mi sento leggero. E che bello, penso, che ci sia ancora tanta gente che ha voglia di lottare per cause collettive. Poi penso pure che forse le lotte fatte così, coi fiori e coi colori, chissà, non portano da nessuna parte. Non sono abbastanza incisive, restano inoffensive, inascoltate.

Continuo a camminare e a guardare la manifestazione che scorre. Poi penso che no, forse mi sbaglio: magari va bene così, ogni stagione ha il proprio linguaggio, i propri codici. I bisogni mutano nel tempo, e con essi gli slogan. Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Chissà cosa ne viene fuori, ma intanto metteteceli.

Devo andare a prendere un treno, ma mi concedo ancora qualche minuto per guardare la manifestazione e scattare qualche fotografia.

Da piazza Venezia il corteo si sposta verso largo Santi Apostoli. L’accesso a via Nazionale è chiuso. Mi domando se gli autobus che vanno alla stazione passino regolarmente. Alla mia sinistra, all’imbocco di via del Corso, c’è una distesa di scudi. Dietro stanno allineati alcuni carabinieri. Dietro ancora due camionette, a proteggere, chissà da cosa, gli sfarzi di una delle vie più chic di Roma.
Mi avvicino a un carabiniere.

“Scusi, sa per caso se via Nazionale è aperta al traffico? Dovrei prendere un autobus…”
Lui mi guarda fisso negli occhi, le braccia conserte, non risponde.
“Mi scusi”, insisto. “Posso domandarle un’informazione? Sa se via Nazionale…”
Il carabiniere scuote la testa, lentamente. Poi aggiunge: “Non vede che siamo qui in assetto antisommossa? Le pare che il nostro ruolo qui sia dare informazione ai passanti?”
“Be’, certo” faccio io, “sicuramente no, ci mancherebbe”. Lo dico col sorriso: il tale è così tronfio che appare sproporzionato e buffo.
“Per queste cose si rivolga ai Vigili Urbani”, fa lui.
“E dove lo trovo un vigile?”
“Lì, guardi, vicino al corteo. Ma stia attento: i manifestanti sono molto pericolosi!”.


Natalino Russo, Roma.



Musica del giorno: Canzoniere illustrato di Daniele Sepe.
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