22 maggio 2008

Gomorra, il film

Ho visto Gomorra, il film di Matteo Garrone tratto dall'omonimo libro di Roberto Saviano. Prima di entrare al cinema ero teso, agitato. Sapevo di andare a vedere un film forte, in cui si sarebbe parlato della mia terra, cui sono legato da radici profonde, una terra che amo e per la quale soffro ogni giorno, spettatore impotente di un martirio. Ero nervoso, impaziente. Avevo letto il libro: un'agghiacciante inchiesta sul sistema camorra. Lo avevo letto e avevo invitato tutti i miei conoscenti a fare altrettanto, sottoponendo anche a loro questo libro, che parla di una cultura, quella camorristica, che pervade la società campana penetrandola a diversi livelli ed espandendosi all'esterno.
Utilizzando un appassionante stile letterario, Saviano si rivolge a chi sa e a chi non sa, racconta un mondo dal dentro, mostrando senza censure linguaggi, sogni, aspirazioni, metodi, destini di chi è legato al sistema camorra. Tuttavia non approfondisce i legami con la politica, con l'imprenditoria, con le sfere decisionali.

Il film è una delle poche trasposizioni in pellicola a non lasciare deluso chi ha precedentemente letto il libro. È forte, toccante, annuncia la sua brutalità fin dalla prima scena. Come e meglio del libro disegna i tratti somatici di un cultura e delle sue aspirazioni, ne tratteggia con sicurezza linguaggi, sogni, metodi, destini. Per questo inchioda alla poltrona e costringe a seguirne i molteplici fili dall'inizio alla fine. È un film lungo, oltre due ore durante le quali si intrecciano diverse storie. Adolescenti allo sbando che sognano di incarnare gli spiriti dannati del cinema americano e si illudono di diventare padroni del mondo impugnando un kalashnikov, viscidi imprenditori che vendono terreni e vite di ignari contadini per seppellirvi rifiuti e veleni, famiglie senza speranza che vivono in ostaggio di un sistema che le mantiene e al tempo stesso le affama, lavoratori inchiodati a un ciclo produttivo disperato. In un flusso continuo e appassionante, la pellicola mostra un mondo parallelo.

Al di là della tecnica utilizzata per girarlo (camera a mano, audio in presa diretta, dialetto e sottotitoli), ogni commento sui contenuti è superfluo: racconta la realtà, e lo fa in un modo talmente fedele da non lasciare scampo. Saviano conosce quel mondo intimamente, e la sua collaborazione alla scrittura del soggetto è evidente in ogni scena.

Alla fine del film scorrono dei titoli, bianco su nero, in cui si dice che la piazza di Scampia è il più grande mercato di droga a cielo aperto al mondo, e che grazie a questi traffici un solo clan può fatturare 500mila euro al giorno. Non si dice, o si lascia solo intendere, che fine fanno quei soldi. Non si dice che la legalizzazione della droga risolverebbe istantaneamente il problema.
In tutto il film si intravedono le case dei boss, i luoghi in cui vivono: sono tuguri fetidi e malridotti. Spuntano qua e là macchine costose e motociclette, ma le case sono penose. Come del resto gli abiti, i modi, il linguaggio dei capi. Questi boss sono rozzi giocatori d'azzardo o cavallari di campagna. In alcune scene si intravedono mostri di cemento, ponti, strade che sembrano stare lì da sempre. Fanno ormai parte del paesaggio, eppure ci sono entrate da pochi decenni.
Nei titoli di coda si legge pure che la camorra ha investito nella ricostruzione dell'area delle Twin Towers di New York, ma la pellicola tace, o lascia solo intendere, qual è il gradino che la camorra sale per accedere alla dimensione imprenditoriale internazionale. Si racconta nei minimi dettagli la vita quotidiana dei boss e delle loro putrescenti corti. Si traccia la linea che, partendo dalle fabbriche del nord, porta i rifiuti a intossicare le campagne del sud. Ma si vedono poche giacche, pochi colletti bianchi, mai una cravatta.
D'accordo, dei processi storici che hanno determinato la nascita e l'evoluzione della mentalità camorristica si è già scritto e visto molto, quindi va bene che in questo film non se ne parli. Del resto non poteva essere un'opera enciclopedica. Ma non si dice nulla, assolutamente nulla, delle scelte politiche che alimentano il perdurare del sistema camorra, offrendogli nicchie da occupare quando non foraggiandolo in modo diretto. Eppure sono attualissime, contemporanee; certe decisioni vengono prese sulle poltrone governative nello stesso momento in cui siamo lì, nel cinema, inchiodati alle nostre piccole poltrone di spettatori.

Uscendo dal cinema, dopo esserci assicurati che non ci sia nessuno a spararci, sospiriamo profondamente, poi cerchiamo lo specchietto di una macchina o la vetrina di un negozio, guardiamo la nostra immagine riflessa e realizziamo con sollievo di essere diversi dai personaggi appena visti sullo schermo: diversi vestiti, diverso linguaggio, altri sogni, forse altro destino. E diversi sono anche tutti quelli che conosciamo, i nostri amici, i nostri colleghi di lavoro. Tutti i campani, napoletani, casertani che conosciamo sono diversi dai campani, napoletani, casertani del film.
Allora se la camorra è fatta di clan e ristagna soltanto in alcuni quartieri, se pervade solo le vite di quelle famiglie disgraziate, se ingabbia solo qualche migliaio di lavoratori, com'è possibile che possa gestire tanti soldi? Se è fatta di bruti semianalfabeti com'è possibile che arrivi a investire all'estero? Se si basa solo sulla barbarie come fa a tenere in scacco uno paese moderno e ricco come il nostro?