1 settembre 2012

Partire o non partire?




In una valle del Ladakh vivono oltre cento famiglie di pastori nomadi. O, meglio: vivevano. Perché stanno andando via. Attratti dal miraggio della vita di città e respinti dalle difficoltà della montagna, poco a poco, una famiglia dopo l’altra, scendono a valle. Si trasferiscono nella capitale, Leh, dove perlopiù diventano muratori o manovali.

Fanno questa scelta per stare più vicini ai figli, che hanno già rifiutato la vita nomade per inseguire l’illusione della comodità, del progresso, di uno status che gli conferisca maggior riconoscimento sociale. Ma il volersi ricongiungere ai figli getta questi pastori nomadi in una contraddizione: se prima li avevano lontani ma potevano aiutarli anche economicamente, ora che li hanno vicini finiscono per dipendere da loro.
Per abbandonare la vita da nomadi, infatti, i pastori sono costretti a vendere tutto il loro bestiame. In blocco, sottostando alle condizioni dei mercanti e della stagione. In questo modo si tagliano qualsivoglia possibilità di fare marcia indietro.
L’esodo verso la città promette quindi un futuro di alienazione, oltre che di perdita d’identità.

Questa storia è raccontata ne La nuit nomade, lungometraggio di Marianne Chaud, giovane documentarista che ha trascorso molti mesi tra le montagne nel nord dell’India. Ha studiato vita, tradizioni, contraddizioni dei popoli che abitano quelle terre, e ha imparato la lingua dei nomadi. Proprio questa facilità linguistica le ha consentito di raggiungere un alto grado di intimità coi pastori, e di filmare scene di vita quotidiana apparentemente normali ma dense di ansie e aspettative. Partire o non partire? Nel suo film, la Chaud raccoglie frasi sagge, battute ironiche, confessioni. E osa, persino: si concede il lusso di entrare in scena, facendo per qualche istante oscillare dei fiori gialli davanti alla camera.

Con uno dei pastori nasce un rapporto molto confidenziale. A un certo punto lui le dice: “E’ una fortuna che tu parli la nostra lingua, altrimenti saremmo come due montagne che si incontrano, o come due sassi”.

Partire o non partire, quindi? Se fossimo degli irrecuperabili sentimentali, citeremmo ora quell’adagio secondo il quale partire è un po’ morire. Invece lasciamo parlare uno dei protagonisti del film, un pastore che si incammina nella landa desolata, però amata, della sua terra. “C’est terrible de choisir”, confessa alla telecamera. È terribile dover scegliere.

Bellissima la fotografia, che rende i paesaggi in modo vivido ma senza lasciare che schiaccino i personaggi. Il resto lo fa una colonna sonora incalzante e leggera.

Coprodotto da Zed e da Arte il film è uscito nelle sale il 4 aprile scorso. Tra i ventuno film in concorso all’edizione 2012 del Film festival della Lessinia, ha ottenuto il Premio del Curatorium Cimbricum Veronense.

A proposito, come va a finire per i pastori che scelgono di trasferirsi in città? Il film della Chaud lo lascia soltanto intuire. Ma al festival della Lessinia è passata un'altra pellicola, ambientata proprio a Leh, capitale del Ladakh. Non c’entra niente con la vita dei pastori nomadi che hanno deciso di trasferirsi, ma in qualche modo racconta qualcosa che li riguarda. Il film si intitola Out of thin air, e parla della sgangherata industria cinematografica di questa città. Ispirati al modello di Bollywood, intraprendenti quanto improvvisati cineasti locali sfornano film a basso budget che riscuotono un successo strepitoso. Gli attori - ma anche gli operatori, i fotografi, gli sceneggiatori e così via - vengono reclutati tra manovali, tassisti, casalinghe, contadini e persino monaci. Sicuramente tra loro c’è anche qualche (ex) pastore nomade.

Natalino Russo, Roma.


La nuit nomade
Marianne Chaud
90’, Francia, 2011
Sito ufficiale: www.lanuitnomade.com

Out of thin air
Shabani Hassanwalia, Samreen Farooqui
49’, India, 2009


24 agosto 2012

Un festival per la ruralità




Bosco Chiesanuova è un piccolo paese della Lessinia, a una mezzora di macchina da Verona. A millecento metri di quota, è il posto giusto dove cercare refrigerio in giorni di caldo torrido. Non che qui faccia proprio fresco, ma almeno si respira aria di montagna. Si scorge da lontano il Corno d’Aquilio (1545 m), limite settentrionale della Valpolicella e contenitore di grandi grotte carsiche come la ben nota Spluga della Preta.

Ma quella che si respira a Bosco in questi giorni non è propriamente aria di cime, e nemmeno di caverne. Qui ogni anno, a fine agosto, approda una montagna speciale, un territorio fatto di ruralità e di vita all’aperto, di uomini e donne che abitano terre lontane, e di registi che raccontano queste storie.

Dal 1995, in questi paraggi si svolge il Film Festival della Lessinia, dedicato appunto alla montagna nell’accezione più ampia del termine.
Vita, storia e tradizioni in montagna, recita il sottotitolo. Del resto i film in concorso quest’anno parlano chiaro: accanto alle storie di montagna - quelle in cui le inquadrature sono occupate da neve, ghiaccio, pareti, profili affilati, fiumi impetuosi - sullo schermo scorrono vite vissute in territori lontani dagli uomini e dalle donne che li abitano.

È la ruralità, più che la montagna, il vero tema di questo festival.

Ne parlo con Alessandro Anderloni, direttore artistico della manifestazione. Lo incontro a un tavolino in Piazza del Festival, davanti al Teatro Vittoria. Intorno a noi c’è un brulicare di persone: registi, sceneggiatori, operatori e pubblico; alcuni sono arrivati qui da lontano, per partecipare a una settimana di proiezioni, dibattiti e seminari.

“Credo che il festival vada trovando gradualmente una sua identità”, dice Alessandro mentre sorseggiamo un mojito. “La parola ‘montagna’ comincia a starci stretta: non rende giustizia all’impostazione di questo festival, che di anno in anno va connotandosi in modo più chiaro”.

Qui infatti approdano storie che narrano di uomini e donne, dei territori rurali che abitano, delle difficoltà e delle contraddizioni di vivere oggi in quei contesti. La televisione, il cinema, le strade, le merci e il mercato si espandono inesorabilmente, penetrano in territori isolati solo fino a qualche anno fa. Li stanno cambiando, li cambieranno per sempre. Il compito del festival di Bosco Chiesanuova forse è proprio questo: dare spazio a chi vuole e sa raccontare questo cambiamento in atto. Il che non ha niente (o poco) a che vedere con la conquista di una cima, con la montagna vissuta come avventura. Per quello esistono già altri festival. Qui si fa un narrare che non punta alla meta ma racconta il viaggio mentre esso si svolge.

“E’ proprio così”, commenta Anderloni. “All’inizio eravamo in conflitto con l’altro festival, quello di Trento, anch’esso dedicato alla montagna. Ma pian piano noi stiamo trovando un’identità diversa, un approccio che ci piace nettamente di più. Credo che il futuro di questo festival sia proprio questo. Forse è giunto il momento che il nome stesso, Festival della Lessinia, diventi autosufficiente, non abbia più bisogno di un sottotitolo esplicativo. Chi viene qui, ormai sa bene che non proponiamo film di montagna nel senso tradizionale. E gli va bene così. Durante queste sere abbiamo proiettato lungometraggi che raccontano storie di pastori, di città, di valli. Sullo sfondo c’è sempre la vita rurale con le sue difficoltà e le sue contraddizioni, e questo al pubblico piace. Registriamo ogni sera il tutto esaurito, e per chi organizza un festival questa è la più grande soddisfazione”.

Questo è un anno strano. L’estate scalda e paralizza la pianura, ma non riesce a intaccare chi, come noi, trascorre questi giorni a mille metri di quota. Certo fa caldo anche qui, ma il bar del festival è un’isola felice. Qui si chiacchiera, si sfogliano libri, ci si scambia foto, racconti, sogni che potrebbero diventare progetti.

Il mojito è quasi finito. Lascio Alessandro ai suoi impegni pomeridiani.


Mentre scrivo queste righe ripenso a uno dei film visti l’altra sera. “Out of Thin Air”, di Samreen Farooqui e Shabani Hassanwalia. Due giovani registe indiane raccontano il Ladakh come nessuno l’ha mai fatto. Nessuna cartolina turistica, nessun linguaggio compiacente o compiaciuto, ma uno sguardo fresco e apparentemente amatoriale per un film che parla di film.
Nella città di Leh è nata un’industria cinematografica che, con risorse quasi nulle, imita le grandi produzioni di Bollywood. Per farlo coinvolge gli abitanti stessi della città, persone che nel quotidiano conducono vite normali: tassiti, falegnami, autisti, insegnati, casalinghe, persino monaci. Con un approccio apparentemente amatoriale, girato cioè con tecniche proprie delle produzioni che intende raccontare, il film offre uno squarcio inedito di un paese bellissimo come il Ladakh, delle sue montagne, delle sue valli e dei fiumi impetuosi che le percorrono.

Si esce dalla sala col sorriso sulle labbra, e con la voglia di vedere altri film che sanno parlare dei luoghi in modo nuovo e fresco.


Natalino Russo, Bosco Chiesanuova (VR, Italy)

7 maggio 2012

Pericolo facinorosi

Roma, 5 maggio 2012. Manifestazione in difesa dell'acqua pubblica


Una folla allegra, musicale e colorata attraversa piazza Venezia. Gli striscioni si confondono coi fiori e con le magliette vivaci e scherzose dei manifestanti. Ci sono tamburi, chitarre, e bici e tricicli e giocolieri. Il cielo è blu intenso, l’aria primaverile. Si sta bene a mezze maniche. Mi sento leggero. E che bello, penso, che ci sia ancora tanta gente che ha voglia di lottare per cause collettive. Poi penso pure che forse le lotte fatte così, coi fiori e coi colori, chissà, non portano da nessuna parte. Non sono abbastanza incisive, restano inoffensive, inascoltate.

Continuo a camminare e a guardare la manifestazione che scorre. Poi penso che no, forse mi sbaglio: magari va bene così, ogni stagione ha il proprio linguaggio, i propri codici. I bisogni mutano nel tempo, e con essi gli slogan. Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Chissà cosa ne viene fuori, ma intanto metteteceli.

Devo andare a prendere un treno, ma mi concedo ancora qualche minuto per guardare la manifestazione e scattare qualche fotografia.

Da piazza Venezia il corteo si sposta verso largo Santi Apostoli. L’accesso a via Nazionale è chiuso. Mi domando se gli autobus che vanno alla stazione passino regolarmente. Alla mia sinistra, all’imbocco di via del Corso, c’è una distesa di scudi. Dietro stanno allineati alcuni carabinieri. Dietro ancora due camionette, a proteggere, chissà da cosa, gli sfarzi di una delle vie più chic di Roma.
Mi avvicino a un carabiniere.

“Scusi, sa per caso se via Nazionale è aperta al traffico? Dovrei prendere un autobus…”
Lui mi guarda fisso negli occhi, le braccia conserte, non risponde.
“Mi scusi”, insisto. “Posso domandarle un’informazione? Sa se via Nazionale…”
Il carabiniere scuote la testa, lentamente. Poi aggiunge: “Non vede che siamo qui in assetto antisommossa? Le pare che il nostro ruolo qui sia dare informazione ai passanti?”
“Be’, certo” faccio io, “sicuramente no, ci mancherebbe”. Lo dico col sorriso: il tale è così tronfio che appare sproporzionato e buffo.
“Per queste cose si rivolga ai Vigili Urbani”, fa lui.
“E dove lo trovo un vigile?”
“Lì, guardi, vicino al corteo. Ma stia attento: i manifestanti sono molto pericolosi!”.


Natalino Russo, Roma.



Musica del giorno: Canzoniere illustrato di Daniele Sepe.
Acquistando su Amazon da un link su questo sito, contribuisci al suo mantenimento.

15 ottobre 2011

Matese

Campo Rotondo, Matese, 2007

Oggi si va un paio di giorni sui monti del Matese, tra la Campania e il Molise, a vedere a che punto è l'autunno. Trascorreremo qualche ora nei boschi e al rifugio Le Janare, insieme agli amici e alla macchina fotografica. Uno stacco necessario in questi giorni di lavoro intenso.


Natalino Russo, Labico.


Musica del giorno: Edoardo Bennato.
Acquistando su Amazon da un link su questo sito, contribuisci al suo mantenimento.

10 ottobre 2011

Francesco Rinaldi


Francesco Rinaldi fotografato da Giulio Bulfoni


Il mio amico Francesco Rinaldi, origini lucane ma naturalizzato campano, si è avvicinato alla fotografia per esigenze archeologiche: doveva documentare i reperti che studiava, e si è attrezzato per farlo. E così, per il gusto di guardare il mondo attraverso una lente, ha fatto dalla fotografia la sua professione. Si è specializzato in reportage e fotografia aerea. Volando a bordo di innumerevoli mezzi, dall'elicottero all'ultraleggero, ha costruito un grande archivio fotografico sui paesaggi e i beni architettonici e storici della Campania. Ha anche collaborato ad alcuni volumi fotografici.

Tra le sue molte attività, vi segnalo un corso di fotografia che terrà a Maddaloni a partire dal 3 novembre, e il lavoro ‘Sacro e profano’, che il 25 novembre sarà ospite di OfCA, Officina Cutillo Architetti, a Caserta in via Cesare Battisti 76.

Fatevi un giro sul sito di Francesco ed esplorate il suo profilo Facebook.




Disco del giorno: Truffe & Other Sturiellett’, di Daniele Sepe.


Natalino Russo, Roma.

6 ottobre 2011

Otoño amigo

Lago del Matese, Campania, 2007

Pare che un'ottobrata così non si vedesse da quasi duecento anni. Questi giorni di sole caldo e aria limpida sono l'ideale per andarsene in giro a scattare fotografie, magari fermandosi in qualche bosco che comincia ad ingiallire. Ma la tastiera attende. E' tempo di testi che non possono più aspettare.

Domani sera all'Auditorium parco della musica di Roma suona Vicente Amigo, un grande del flamenco.


Musica del giorno: quella di Vicente Amigo, evidentemente.


Natalino Russo, Labico.

29 settembre 2011

Sepe al Maschio

Locanda Atlantide, Roma, 2009

Domani sera il Maschio Angioino di Napoli ospita un gran bel concerto. Daniele Sepe produce da anni autentici capolavori musicali, ha la capacità di mettere insieme musicisti di diverse estrazioni e fare concerti strabilianti. Io non sono un esperto di musica, anzi ci capisco davvero poco. Ma mastico qualcosa di esplorazione. E posso dire che Sepe è decisamente un esploratore accanito del panorama musicale partenopeo, mediterraneo, africano e latinoamericano. Attraversa con curiosità e passione molti generi, li guarda con occhi nuovi, ne traccia disegni inediti, ne ricava una musica personalissima.

Sagace, combattivo e resistente, Daniele si è fatto molti nemici per il disco Fessbuk, Buonanotte al manicomio. Sul suo profilo Facebook ha ammiratori sfegatati e ostili detrattori. Molti lo criticano ferocemente, spesso prendendo a pretesto il linguaggio e l'aspetto formale dei suoi testi. Ma pochi hanno provato ad analizzarne seriamente la sostanza. Certo: Sepe ha posizioni severe e modi un po' bruschi, ma sto ancora aspettando che qualcuno, tra i suoi contestatori, parli di contenuti.


Napoli, Maschio Angioino. Venerdì 30 settembre 2011, ore 21.30. Ci saranno: Doris Lavin (Cuba, voce); Auli Kokko (Svezia, voce); Florin Barbu (Romania, voce e chitarra); Roberto Argentino Lagoa (Argentina, voce, flauti e percussioni); Robertinho Bastos (Brasile, percussioni); Marzouk Mejri (Tunisia, voce e darbuka); Alessandro Tedesco (trombone); Peter Di Girolamo (tastiere); Franco Giacoia (chitarra); Gigi De Rienzo (basso); Daniele Chiantese (batteria) e ovviamente Daniele Sepe ai fiati. Ospiti d'onore Shaone (voce) e la Contrabbanda di Luciano Russo.

Peccato, stavolta, non poterci andare.


Musica del giorno: tutta quella di Daniele Sepe.

Villa Ada, Roma, 2010

Natalino Russo, Roma.

25 settembre 2011

Sporca Italia

Napoli, centro storico, 2010

Una tranquilla domenica di settembre. L'autunno non riesce a mandar via l'estate. Lavoro alternato a riposo. Testi da scrivere e rivedere, foto da sistemare. Qualche pagina di un libro che parla di Berlino. Una tazza di tè.

Poi un giro in bicicletta intorno a Labico, per le colline della campagna romana che precedono i monti Prenestini. Strade tranquille, solo parzialmente asfaltate, costeggiano campi arati a perdita d'occhio. Uno steccato, uno stormo di uccelli. Passa un treno in lontananza. Poi silenzio. Si può udire il rumore delle prime foglie che si staccano dagli alberi.

Peccato per la spazzatura che, autentica piaga di questo paese, invade i fossi e le siepi, le scarpate e i greti dei torrenti. E nessuno la rimuove, da anni. Si sbriciola, si ricopre di terra, si assorbe nel paesaggio naturale e lo degrada lentamente.

La gente è sporca, non c'è dubbio. Ma se è per questo lo è un po' ovunque, anche in altri paesi d'Europa. La differenza è che lì, fuori da questa sporca Italia, non passa un giorno senza che le strade vengano pulite e gli eventuali rifiuti rimossi.

Quindi mi domando: cosa pensano i nostri amministratori? Lo considerano un problema oppure non ci fanno più caso? Anzi: c'è stato un tempo in cui ci hanno fatto caso? Oppure per loro è normale, da sempre, vivere tra scarti e detriti di ogni genere?

Non mi riferisco alle istituzioni, entità astratta e inafferrabile; ma proprio alle persone, quelle in carne e ossa: sindaci, assessori, presidenti, amministratori. Quando passano per queste strade (perché non possono non passarci) non si vergognano?

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Ma anche un po' sulla monnezza.


Libro del giorno: Sul guardare, John Berger.


Natalino Russo, Labico.

17 settembre 2011

Compatte

Faggio, monti del Matese, 2006 (Canon G9)

Fotografo usando macchine reflex fin dai tempi della pellicola, quando tuttavia erano disponibili compatte di qualità. La reflex ha sempre consentito maggior controllo, soprattutto sulla profondità di campo. All'epoca erano disponibili macchine di dimensioni piuttosto ridotte, tra cui le bellissime e solide Nikon FM2 ed FE, l'elettronica e veloce F801s, oppure la minuscola Pentax ME Super o la economica Yashika FX3 Super 2000, che consentiva di usare ottiche Contax.

A quei tempi (solo dieci anni fa!) la differenza la facevano obiettivo e pellicola: in una macchinetta con buone lenti mettevi una buona pellicola e il gioco era fatto. Non era difficile produrre foto eccellenti, adatte alla pubblicazione, anche con fotocamere di piccole dimensioni (ad es. Minox o Rollei) e persino economiche (Yashika T4 Super).

Con il digitale questo non è più vero, o almeno per qualche anno non lo è stato: la pellicola è stata sostituita dal sensore, che non è più cambiabile a piacimento. Siamo quindi costretti a utilizzare accoppiate sensore/obiettivo decise dai produttori. Il sensore è parte del corpo; possiamo cambiare soltanto gli obiettivi. Per stare dietro alle evoluzioni tecniche non basta cambiare obiettivo o pellicola, ma siamo costretti a inseguire i nuovi modelli di fotocamere.
E' un cambiamento di prospettiva totale. E ovviamente in questo nuovo corso i produttori ci sguazzano, sfornano nuovi modelli ogni pochi mesi, spesso aggiungendo o variando pochissimo, e qualche volta addirittura togliendo. Quante volte abbiamo visto modelli più evoluti di quelli precedenti ma magari con qualche pulsante in meno? Chi fotografa per lavoro conosce benissimo l'importanza di un rapido accesso ai controlli (tempi, diaframmi, compensazione EV, blocco AE-L, ISO, compensazione flash, etc). Eppure a volte, nei modelli nuovi, questi controlli vengono ridotti.
In sostanza ogni nuovo lancio sul mercato risponde a logiche di marketing, con la conseguenza che dopo ormai oltre dieci anni di fotocamere digitali non esiste ancora un modello poco ingombrante che sia in grado di soddisfare le esigenze dei professionisti.

Certo, qualche produttore sperimenta vie nuove. Un esempio è la Ricoh GXR, compatta a sistema basata su un corpo fisso sul quale si possono installare diversi obiettivi comprensivi di sensore. In questo modo l'interfaccia della fotocamera resta invariata (corpo principale, controlli, schermo LCD) ed è possibile cambiare obiettivo e sensore. Il rapporto prezzo/qualità non è dei più convenienti, ma si tratta pur sempre di una possibilità interessante.

Dopo un iniziale periodo di assestamento, ormai le reflex digitali consentono di produrre fotografie di qualità eccellente, pari se non superiori a quelle in pellicola. Ma questi apparecchi (e gli obiettivi che richiedono) hanno un ingombro, un peso e un'invasività incompatibili con determinate condizioni di ripresa.
Inoltre il mercato delle reflex di qualità è ormai quasi saturo, e la tecnologia dei sensori per reflex ha ben poco di nuovo da esprimere. Aumentare i megapixel non serve. Aumentare gli ISO fa comodo, ma abbiamo già macchine che producono risultati eccellenti (ad es. Nikon D700 e Canon 5D Mark II).

Viaggi, lunghe camminate, reportage, foto in strada o in montagna sono solo esempi di contesti in cui farebbe comodo poter disporre di macchine piccole e leggere, ma di qualità. Schiena e collo ringrazierebbero.
Leica ha prodotto la M8 e la M9, fotocamere a telemetro che seguono il solco della prestigiosa serie M, ma costano uno sproposito, oltre al fatto che la qualità dei file lascia un tantino a desiderare. O almeno non ripaga dell'investimento.



Che alternative hanno, quindi, professionisti e fotografi evoluti che vogliono lasciare a casa la reflex e utilizzare macchine più portatili?

I produttori si stanno orientando verso un nuovo filone, quello delle macchine compatte senza specchio, le cosiddette mirrorless. Negli ultimi mesi se ne parla molto, soprattutto delle APS-C Sony serie NEX, e delle micro4/3 Olympus Pen e Panasonic Lumix G. Non sono ancora prodotti eccellenti, ma alcuni modelli consentono discreti controlli di ripresa, perciò stanno suscitando una certa curiosità tra i professionisti.
Ne parleremo presto su questo blog.

Restano le cosiddette compatte evolute, che negli ultimi anni, pur restando lontane dalla qualità richiesta nel mondo professionale, stanno facendo interessanti passi avanti. Hanno sensori un po' più grandi rispetto ai francobolli delle compatte amatoriali; utilizzando meno pixel, assicurano maggior qualità soprattutto in condizioni di scarsa luce o ISO elevati; consentono maggiori controlli sui parametri di ripresa.

Tra i modelli al top della categoria ci sono sicuramente la Olympus XZ-1 e la Panasonic Lumix LX5. Le sto usando da qualche mese, anche per lavoro. Nei prossimi giorni posterò un po' di considerazioni, sia di carattere tecnico sia di usabilità a seconda delle condizioni di ripresa.

- - -

Contribuisci al mantenimento di questo sito acquistando su Amazon.
Olympus XZ1 in versione nera e bianca.
Panasonic Lumix LX5 in versione nera e argento.
Un po' di libri sulla fotografia digitale.

Di tanto in tanto rinnovo la mia attrezzatura fotografica e metto in vendita del materiale. L'elenco aggiornato è disponibile qui.

- - -

Musica del giorno: Cab Calloway.


Natalino Russo, Labico.

16 settembre 2011

Trasporto pubblico

Consultando la mappa dei mezzi pubblici. Berlino, 2011

"E mi raccomando, signora: il giorno dell'intervento si faccia accompagnare, perché non potrà guidare".

L'infermiere consegna alla donna la documentazione, la saluta con gentilezza, chiama il prossimo paziente. Una scena ordinaria, per un ospedale. Peraltro moderno, pulito, efficiente come il San Pietro di Roma. Strutture come questa aprono uno spiraglio nel panorama sconfortante dei servizi pubblici italiani. Finalmente un posto che funziona. È tutto in ordine, non ci sono cartelli scritti a mano e attaccati ai muri usando cerotti, le porte non sono tenute da lacci emostatici slabbrati, le sale d’attesa non sono puzzolenti e buie, le sedie non sono rivestite di scritte e riparate usando garze, i bagni sono puliti. Sembra finalmente di essere in Europa.

Fino a quella frase che l’infermiere, peraltro scrupoloso e cortese, ha detto congedandosi dalla paziente: “Si faccia accompagnare perché non potrà guidare”.
Una raccomandazione ordinaria, per un ospedale. Evidentemente non c’è altro modo di raggiungerlo se non usando l’automobile. O meglio: altri modi non sono contemplati nell’orizzonte mentale di quest’infermiere diligente, di questa signora degente e, purtroppo, nell’immaginazione della maggior parte degli italiani.


("Con l'espressione trasporto pubblico si intende l'insieme dei mezzi di trasporto e delle modalità organizzative che consentono ai cittadini di esercitare il proprio diritto alla mobilità servendosi di mezzi non di proprietà" - da Wikipedia).


Disco del giorno: Goodbike, Tetes de Bois.


Natalino Russo, Roma.